martedì 24 dicembre 2013

Diamond Dogs

Apro la casella gmail. Le stelline gialle si susseguono, sembra di stare in una puntata di Star Trek. Premo "cestina" continuamente - non mi interessa un buono sconto per una mastoplastica, niente cena per due in ristorante messicano, niente presentazione di un libro la cui copertina è scritta in Comic Sans, spam, spam, spam. Poi, a un certo punto, un'e-mail attira la mia attenzione. Il mittente è testualmente: Tony Visconti. Per chi non lo sapesse, Tony Visconti è il produttore storico di David Bowie. Mettiamola così: se David Bowie è Dio, Tony Visconti è l'arcangelo Gabriele. Quindi l'arcangelo Gabriele mi ha appena mandato una mail. In questa santissima mail c'è scritto che David Bowie si presterà a un'intervista telefonica con me alle mie due del pomeriggio. Quindi, alle due del pomeriggio intervisterò Dio.

Mi lavo e mi profumo come se David Bowie potesse captare con le sue santissime narici il bagnoschiuma dalla cornetta del suo santissimo telefono. Solitamente sostengo che il meglio del mio lavoro risieda nel fatto che posso permettermi di passare le mie giornate in pigiama, o che al massimo debba cambiarmi maglione per mostrarmi a mezzobusto su Skype, mentre in gran segreto indosso ancora i pantaloni del pigiama. Ma oggi non è così. Un'intervista con Dio non può essere condotta in pigiama.
Mi vesto con cura. Sorrido allo specchio e controllo di non avere nulla tra i denti. Sono le tredici e cinquantasette. Mancano tre minuti e il mio telefono squillerà e qualcuno mi passerà David Bowie.

Niente panico. Uno due tre - prova. Fisso il telefono come un credente fisserebbe la finestra del Papa alla vigilia di Natale. Lo fisso così tanto che mi bruciano gli occhi. E poi, finalmente, squilla.
Lascio passare qualche secondo per non dare l'impressione di essere lì da ore, e poi rispondo.
-Are you ready?
Mai stata più ready di così.
Sento un rumore, il telefono passa di mano ed eccolo.
-Hello?
Mi sciolgo come neve al sole. Vorrei dirgli di cantarmi Station to Station lì, subito, senza introduzioni. Cantami quello che vuoi, David, anche Old McDonald Has a Farm. Silent Night. Il pulcino Pio. Poi, però, succede una cosa strana.

All'improvviso non sono più nella mia stanza. Ho ancora David Bowie al telefono, ma sono in un prato verdissimo. Mentre David Bowie parla, un sacco di bassotti grassi dal pelo rossiccio corrono contro di me. Mi sembra di stare in una di quelle gif animate in cui animali grassi fanno cose strane. In questa gif animata un fiume interminabile di bassotti grassissimi corre verso di me, mentre David Bowie mi racconta The Next Day al telefono. Dio parla e i bassotti m'assalgono, si dimenano, muovono le loro zampette corte, sembrano volare grazie alla combinazione tra la loro bassa statura, la gravità e le orecchie troppo grosse. Mi viene da ridere ma non posso, perché c'è David Bowie al telefono. Mi viene in mente una tristissima battuta sui bassotti e Diamond Dogs e devo reprimere una risatina. Uno due tre - calma.

Poi apro gli occhi ed è la vigilia di Natale.

giovedì 12 dicembre 2013

Lilac Wine


Sono nella casa di un uomo che non ho mai visto, eppure mi sembra di conoscerlo benissimo. Non ne sono sicura ma ne avverto il sentore; sembra quasi un retrogusto amarognolo sulla lingua. È in cucina e sta tagliando una grossa cipolla bianca in minuscole fettine, che si abbattono sul tagliere di legno l’una dopo l’altra senza fare rumore. Il coltello che tiene in mano è grande e affilato e la lama riflette il globo del lampadario. A un certo punto, l’ultima fettina di cipolla si tinge di rosso. L’uomo s’è tagliato un dito e adesso mi guarda. Il mio sguardo corre dai suoi occhi alla bolla di sangue che si sta formando sul polpastrello. Penso a come sarebbe sfiorarla di un millimetro e disfare l’equilibrio precario della superficie scarlatta.
-Vai in salotto mentre finisco di cucinare, mi stai distraendo, è colpa tua
mi dice, e io mi alzo in silenzio. In salotto, di fronte al divano, c’è un armadio nero. Un’anta è socchiusa. Mi avvicino e lo apro. Davanti a me si dispiega una serie di coltelli dal manico d’acciaio di varie dimensioni. Cerco di abbracciarli tutti con lo sguardo ma non ci riesco. Immagino come devono sembrare minuscoli riflessi nell’oscurità della mia pupilla e rabbrividisco. Dalla cucina, sento il rumore delle cipolle lasciate a soffriggere in agonia nell’olio bollente. Mi viene improvvisamente la nausea. Devo vomitare. Apro la porta di quello che penso sia il bagno e, non appena la richiudo, mi rendo conto di non essere più nella casa di prima.

Davanti a me si srotola una strada statale fiancheggiata da tronchi d’albero bruciati, reduci senza dubbio da un incendio devastante. I loro monconi cercano di protendersi il più possibile verso il cielo, neri come il carbone, ma il risultato è grottesco. La nebbia li inghiotte uno ad uno. La riga bianca spartitraffico che parte dai miei piedi si perde dopo pochi metri. Fa freddo, e io mi accorgo di non avere addosso altro che un leggero vestito estivo. Rabbrividisco e mi stringo in un goffo abbraccio. Penso – Sono sola. Ma non è vero.
Mi bastano pochi passi per incontrare una donna.
È seduta sul ciglio della strada e sulle labbra porta un rossetto di un rosso così acceso che mi dà le vertigini. Mi sembra una cosa così oscena che sono costretta a distogliere lo sguardo per un attimo, prima di analizzarla. È giovane e bella. È bionda, ha lo smalto scheggiato sulla punta delle dita e stringe tra le mani una borsetta di cuoio. Attorno agli occhi ha due cerchi nerastri, non capisco se l’abbiano picchiata o se non dorma da giorni. Di punto in bianco apre la bocca e sospira: le labbra rosse si dischiudono e noto che uno degli incisivi è rotto in un angolo. Non so perché, ma quel particolare mi turba più del colore del rossetto. Un brivido mi corre dalla nuca alla fine della colonna vertebrale.

-Chi sei?
dico. Lei mi guarda appena e si porta un dito alle labbra nel gesto del silenzio.
-Sta morendo
mi dice, indicando un punto davanti e sé. Riesco a distogliere un attimo lo sguardo dalla sua bocca e a guardare in direzione del suo dito. Accucciato sul cemento, in mezzo alla strada, sta un piccolo cerbiatto.
È quasi immobile, non fosse per il petto che, impercettibilmente, si muove su e giù. Ha gli occhi neri spalancati e riesco a sentire la sua paura come spilli sulla pelle. Mi sembra che il sangue nelle vene scorra più denso del solito.
-Cosa gli è successo?
-L’hanno ferito, non c’è più niente da fare. Tra qualche ora sarà morto.
La ragazza si accende una sigaretta. La fiamma dell’accendino le illumina il viso per un secondo, poi rimane solo la punta arroventata della sigaretta. Vengo presa da un irrefrenabile scatto d’ira.
-E tu te ne stai qui senza fare niente? Lo guardi morire?
Lei mi guarda con l’indifferenza negli occhi.
-A volte non c’è proprio nient’altro da fare che guardare le cose morire.
La nausea ritorna. Il cerbiatto mi guarda, come se potessi fare qualcosa per salvarlo. Sono troppo vigliacca per ucciderlo. Mi tremano le mani, reprimo un conato.

Poi, all’improvviso, sento una voce dietro di me mi chiama.
-
È pronto, puoi venire in cucina adesso.
Mi giro e mi ritrovo di nuovo nel salotto. Del cerbiatto e della ragazza bionda, non c’è più alcuna traccia.
L’uomo mi guarda con la testa inclinata verso destra. Mi porge un calice di vino denso e di un rosso troppo acceso. Conosco quel colore: l’ho visto pochi istanti fa sulle labbra di quella ragazza.
-Hai fame?
Annuisco.

mercoledì 4 dicembre 2013

David Foster Wallace e il Muro di Berlino





È
una mattina tanto impregnata di noia che quasi facciamo fatica a galleggiare. Parlo al plurale perché non sono sola: seduto accanto a me sta David Foster Wallace. In testa ha la sua tipica fascia da tennis, i capelli avrebbero bisogno di una lavata, il sorriso è un po’ sornione. Mi chiedo se si sia appena fatto una canna. Tra le mani stringe la mia tazza preferita dell’Ikea con una bustina di tè verde immersa nell’acqua bollente.
Io mi lamento. Vorrei avere un naso diverso, mi sono stufata del mio. Ieri sera mi sono guardata allo specchio e mi sono resa conto di non volere più il mio naso, ma che ci posso fare? Mica lo posso impacchettare e rispedire al mittente. “Mi sa che me lo devo tenere” dico a David con aria funerea, mentre smanetto sul portatile.

Lui sbuffa. Appoggia la tazza sul pavimento e dal nulla, con una mossa da prestigiatore, tira fuori una valigetta di cuoio marrone. La apre e – meraviglia! Allineati uno dietro l’altro, come piccoli soldatini in attesa, stanno nasi di diversa fattura: grandi, piccoli, aquilini, appuntiti, ce n’è per tutti i gusti. Dei piccoli nastrini li tengono fermi. Rimango a fissare affascinata il contenuto della valigetta e ringrazio David. Lui mi guarda con un sopracciglio alzato. “Senti, non è che voglia farmi gli affari tuoi, ma non è tanto bello che tu voglia cambiare naso. Hai un bel naso. Poi nella vita bisogna imparare ad accettarsi, non è che puoi sempre avere quello che vuoi, lo diceva anche Mick Jagger. Che ne sai che magari un giorno ti sveglierai e rimpiangerai il tuo vecchio naso? Sei cresciuta con lui. E poi te la ricordi la storia del naso di Kovalev, quella di Gogol? Che faresti se fosse il tuo naso a stufarsi di te?”

Stavolta sono io a sbuffare. Continuo a guardare i nasi, li sfioro con la punta delle dita. Sono morbidi. Mi ricordano dei tortellini. “Secondo te quale mi starebbe meglio?” gli chiedo sognante.
In quel momento si accende la televisione. Si accende proprio da sola, come nei film horror, solo che è mattina quindi non ci impauriamo più di tanto.
C’è un’edizione speciale del telegiornale. Le immagini sullo schermo ci mostrano tafferugli, persone con picconi intente a spaccare un muro. Tirano giù i mattoni, passano da una parte all’altra del muro, lo scavalcano, si abbracciano, piangono. Una voce fuori campo ci informa che è stato appena abbattuto il Muro di Berlino.
“Ma cosa dicono! Il Muro di Berlino è già caduto” dico un po’ infastidita. David sorride con l’aria di chi pensa che sei un completo idiota.
“E che vuol dire, scusa. Il tuo ragionamento fa acqua da tutte le parti. Tu non sei mai caduta? Questo vuol dire che non puoi cadere di nuovo?”
Mi sto innervosendo. Ma che dice questo? E meno male che lo osannano come una delle menti più brillanti del Novecento. Wittgenstein deve avergli dato alla testa.

In quel momento suonano il campanello. David sobbalza e con il piede rovescia la tazza sul pavimento. Lo guardo in cagnesco e vado ad aprire la porta di casa. Mio papà è sulla soglia, sorridente. Ha in testa un berretto color sabbia e sulla spalla una canna da pesca inguainata in una custodia nera.
“Ho pensato di chiederti se ti andava di andare a pescare per festeggiare.”
“Festeggiare cosa?”
“La caduta del muro di Berlino!”
Dalla mia stanza, arriva una voce soffocata.
“Che fai, allora, questo naso lo vuoi o non lo vuoi?”

Mi sveglio.

martedì 19 novembre 2013

Horror vacui

Non riesco a respirare.

Nel sogno non riesco a repirare, anche se è probabile che stia boccheggiando anche nella realtà; mi immagino a bocca aperta, le labbra aride e in tensione, il petto che si affanna come un animale braccato. Nel sogno sono stesa su un pavimento freddo, lo sento sulla schiena, liscio e gelido come l'alito di un morto. Mi ci vuole qualche minuto per rendermi conto che non sono semplicemente distesa, ma letteralmente inchiodata al suolo, crocifissa alla forza di gravità. Riesco in qualche modo ad alzare la testa e guardarmi la mano destra: al centro del palmo c'è un chiodo d'argento. Niente ruggine, niente sangue: una perfetta operazione chirurgica.

Abbasso la testa e mi sforzo di respirare. Non andare in panico. Non farti prendere dalla nausea. Se vomiti adesso è finita. Serro le palpebre e, su uno sfondo rossastro venato di nero, ballano scomposte centinaia di stelline luminescenti. Con un po' di immaginazione, sembrano tanti girini su un fondale d'argilla. Cerco di mettere ordine nel caos delle sensazioni che mi affollano mente e corpo. Disgusto, prima di tutto. Paura, certo. Dolore? No, non penso sia dolore. Se sto ferma, non avverto le ferite; non accuso la posizione innaturale in cui mi trovo.

Mi rendo conto di avere sete, una sete incredibile. Sopra di me c'è solo una grande luce bianca. Dove mi trovo, proprio non so dirlo. Perché mi trovo qui? Non lo so, non so nemmeno questo. Mi sembra che in un attimo tutto quello che ho imparato nella vita non conti più niente. Cosa me ne faccio dei libri, delle addizioni, delle radici quadrate, adesso che sono intrappolata in un posto che non conosco, senza la minima idea di chi mi ci abbia costretta?

Sento un fruscio sulla coscia. Cerco di alzare la testa di nuovo. Lo sforzo mi costa una fitta al collo. Cerco di mettere a fuoco il mio corpo abbandonato al pavimento e vedo un grosso ragno nero sulla mia gamba. Si muove con agilità, sembra che danzi. Ringrazio Dio di avere solo due gambe - il supplizio insensato della crocifissione mi sembra eccessivo per quattro arti, figuriamoci otto. Non mi fa paura. Mi chiedo solo cosa voglia da me; mi attraversa l'idea che forse voglia intrufolarsi al mio interno, farsi spazio nella mia bocca per risalire nella testa e annidiarsi lì, costruendo una ragnatela attorno al mio cervello. Al pensiero vengo colta da un conato. Serro le labbra e comincio a pregare qualche dio sconosciuto di liberarmi da questo supplizio. Ti prego, per favore, ti scongiuro.

Poi ad un certo punto mi ritrovo seduta. Sulle mie mani non ci sono segni dei chiodi. Me lo sono immaginato? Sono in una stanza bianca, su una sedia bianca. Davanti a me, sul pavimento, sta un vaso di vetro. Dentro al vaso, sta il ragno. Si arrampica sulle pareti e poi ricade sul fondo. Sembra furioso. Ripete il gesto meccanicamente mille volte. Lo ripeterà finché le zampe cederanno una dopo l'altra. Provo allo stesso tempo repulsione e attrazione per quell'essere intrappolato. Prendo in mano il vaso, lo scuoto: il ragno cade sul fondo e cerca di rimettersi in piedi. Mi chiedo se sia il caso di liberarlo oppure no - poi penso al mio cervello, alla ragnatela, alle sue zampe sulla mia pelle. Appoggio il vaso al suolo e me ne vado.

domenica 20 ottobre 2013

Applause.

Nel sogno, mi sono svegliata con un gran mal di testa. Sognavo di essere addormentata, e poi mi sono svegliata, anche se nella realtà dormivo ancora, un po' come le scatole cinesi. Insomma, mi sveglio per finta con un cerchio alla testa da dopo sbronza, gli occhi impastati e ridotti a due fessure. Mi stiracchio un po', scrocchio il collo - prima a destra, poi a sinistra - mi infilo le ciabatte - prima la sinistra, poi la destra - e mi avvio verso la cucina, con la vaga intenzione di fare prima una puntatina in bagno, anche se alla fine decido di farmi prima un caffé. Guardo la moka avviluppata dalla fiamma bluastra del gas e tamburello sul piano della cucina con le unghie. Vedo una pellicina e me la strappo con i denti. Ovviamente esce una valanga di sangue e io tiro una piccolissima bestemmia, di quelle creative e davvero poco offensive. Il caffé bolle e ribolle, io lo spengo, lo bevo, mi ustiono la lingua, impreco, ridacchio, metto la tazzina nel lavandino. Una giornata come tutte le altre, insomma, non fosse che

non fosse che, dopo la pellicina, la piccolissima bestemmia e l'ustione sulla lingua, vado finalmente in bagno a fare la pipì. Mi siedo, faccio la pipì, rimango un po' lì a guardare instupidita il soffitto e a pensare che s'è bruciata una lampadina e io non ho la minima idea di quanti watt ci vogliano, se è a basso consumo oppure no, poi mi tiro su i pantaloni del pigiama, mi alzo e vado verso lo specchio.
A quel punto mi pare ovvio che non sia una giornata come tutte le altre, perché al posto della testa ho una zucca. Una zucca tonda, grossa, di quelle tipicamente halloweeniane, arancione zucca, una zucca arancione. Rimango a fissarmi con gli occhi intagliati nella zucca. Non urlo, non bestemmio, non impreco. Rimango a guardarmi, mi tocco con la punta delle dita, faccio toctoc sulla cima della zucca, ma non c'è niente da fare. Mi chiedo se ci sia il cervello dentro la zucca o se i miei pensieri adesso siano di natura vegetale, pensieri arancioni e pieni di semini. Mi chiedo dove sia andata a finire la mia faccia, la mia testa, dove siano i miei capelli. Che cosa è successo nella notte? Chi mi ha trasformata in una zucca? Perché? Ma la cosa più buffa è che in realtà non me ne importa molto. E' una bella zucca, in fin dei conti, di un arancione davvero esemplare - credo che il pennarello arancione della Pantone sia di questa esatta nuance, mica per tirarmela - e mi sento stranamente affezionata alla mia zucca. Ovviamente,

quando ci si rende conto che una ragazza ventiduenne generalmente normale, che scrive per qualche rivista, studia, s'è laureata in tempo, ha un fidanzato e vorrebbe un gatto nero, si è svegliata un giorno con una zucca al posto della testa, le mie giornate cambiano radicalmente. Il telefono squilla sempre, e non sono esattori delle tasse, venditori della Vodafone o testimoni di Geova a turbare le mie domeniche mattina, ma giornalisti di Vanity Fair, Times, Huffington Post, persino il New Yorker. Mi ritrovo tutta imbellettata con la mia zucca luccicante a fare servizi fotografici per Vogue, tutti mi amano, gli stilisti fanno a gara per vestirmi, Lancome mi manda una pochette piena di prodotti bio per lucidare la zucca a base di beta carotene. Inutile dire che l'arancione torna prepotentemente nei negozi. Ma il climax deve ancora arrivare. Infatti,

una mattina rispondo al telefono (non pensate sia semplice, con una zucca al posto della testa) e la voce dall'altra parte della cornetta mi dice "Hello, I'm Lady Gaga". E così, da una semplice ragazza ventiduenne generalmente normale, che scrive per qualche rivista, studia eccetera eccetera, mi ritrovo coinvolta nel nuovo tour di Lady Gaga, inguainata in Alexander McQueen, abbarbicata su trampoli di Jimmy Choo, a risplendere di luce propria sotto i faretti micidiali di mille lampade al led di tutti i colori, sotto piogge di coriandoli, lustrini, in un tripudio di arancione (l'ho già detto che è diventato il colore dell'anno?) e applausi - come quelli della canzone. Al telegiornale non si parla d'altro. Nascono gruppi ambientalisti in difesa della zucca. I vegani non vanno più di moda, adesso per la strada ci sono attivisti con fotografie di zucche rotte che inveiscono contro i passanti, chiamandoli criminali per il loro consumo dell'ortaggio. La vendita di gadget per Halloween subisce un tracollo pazzesco. Non fosse che

non fosse che poi mi sono svegliata con un gran mal di testa. Stavolta per davvero. Mi stiracchio un po', scrocchio il collo - prima a sinistra, poi a destra - mi infilo le ciabatte - prima la destra, poi la sinistra - e mi avvio verso la cucina, con la vaga intenzione di fare prima una puntatina in bagno, che poi è quello che faccio veramente. Prima ancora di fare la pipì e mettermi a guardare instupidita il soffitto, le lampadine, i watt eccetera eccetera, mi guardo allo specchio. La mia faccia è ancora lì, con due belle occhiaie che circondano gli occhi come quegli insiemi che ci facevano disegnare alle elementari. Nessuna intersezione. Suona il telefono. Rispondo. Mi chiedono del mio piano tariffario. Non è Vanity Fair.

domenica 6 ottobre 2013

Un biglietto di sola andata

Mi alzo senza far rumore. Il quadrante del mio orologio segna le tre e mezza. E' notte fonda e fuori c'è un silenzio irreale, spaccato ogni tanto solamente da qualche sinistro fruscio. Il bosco è immerso nell'ombra e a illuminare i miei piedi scalzi c'è solo la luce del lampione che filtra dalla finestra. Esco fuori così, in pigiama, senza scarpe. Fa freddo e al contatto con i gradini di pietra della scala la mia pelle si riduce in tante minuscole capocchie di spillo. Quando raggiungo il prato l'erba bagnata mi solletica la pianta dei piedi e mi confonde: sarà un sogno anche stavolta?
Sembra una fotografia. Il lampione vomita una luce pallida e malata, di quel giallo verdastro che a volte prende il tuorlo dell'uovo quando rimane troppo nell'acqua che bolle. Si riversa sulla macchina parcheggiata lì sotto, tra ciuffi d'erba e qualche pietra muschiosa. Non si vede l'interno, i vetri sono coperti di brina. Il mio respiro si condensa in nuvolette dolciastre che sembrano non volersi staccare dalle mie labbra screpolate. Mi sembra che mi sanguini la gengiva, sento sapore di ruggine sui denti. Ci passo sopra la lingua per essere sicura che siano ancora lì, che non sia uno di quei sogni in cui mi metto a sputarli, bianchi e lucidi corpi estranei che allineo sul palmo della mia mano prima di risvegliarmi sudata, con le tempie che pulsano. Sono ancora tutti lì in fila, da bravi soldatini. Ora posso finalmente rivolgere la mia attenzione alla macchina.

Capisco che devo entrare, anche se non ne ho voglia. Mi sembra che dentro ci sia qualcosa che cerca di uscire a tutti i costi, mi sembra che l'aria sia diventata improvvisamente troppo piena. Avvicino la mano sulla maniglia e mi sembra di avvertire un battito, come se stessi stringendo un polso pieno di vene. La apro e mi infilo nel sedile del passeggero, poi richiudo la portiera.
Dietro di me non si vede nulla. Un ragno ha tessuto una ragnatela intricatissima, una matassa bianca che ha avvolto ogni cosa e ricamato merletti astratti nell'aria, aggrappandosi ad ogni angolo e creandone di nuovi dove non era riuscita a incontrarne, saturando lo spazio e ingoiando l'ossigeno. E' bellissimo e bruttissimo allo stesso tempo. So che è ancora lì, sento le sue zampette arrampicarsi in un angolo imprecisato della macchina e so con certezza che avvolgerà anche me, ma non mi va di andarmene. Non ho paura, ma solo un senso di nausea. Il sapore di ruggine si fa sempre più forte. Sputo sul cruscotto e un liquido nerastro cola dalle mie labbra. Arriccio il naso: è inchiostro. Fisso affascinata la macchia disegnare ghirigori sulla plastica e penso che chi è dotato di un eccessivo senso estetico è destinato a soffrire, soffrire per le cose belle perché sembrano scoppiarti nel petto, sembrano falchi dagli artigli acuminati pronti a farsi strada dalla tua cassa toracica tagliando tutto quello che incontrano, e soffrire per le cose brutte, perché racchiudono in sé una forma di bellezza che invece di sbocciare è appassita in silenzio prima del tempo. Un biglietto di sola andata verso la tristezza.

Mentre penso questo, il ragno ha già intessuto la sua tela attorno alle mie gambe e mi sta imprigionando lentamente. Non mi importa, chiudo gli occhi, rilasso i muscoli, passo la lingua sui denti: sì, questa notte ci sono ancora tutti.

domenica 22 settembre 2013

Cos'è La Dolce Vita?

Un sogno bellissimo. Come tutte le cose belle, ho dovuto lottare per tenermelo stretto, per evitare che voli via, che si sbricioli tra le mani come pagine di vecchi libri ingialliti. Bellissimo perché so sin dall'inizio che è un sogno, e dunque non c'è traccia di quella fretta golosa ingorda che ho nella vita e quella sensazione che il tempo non basti mai. Bellissimo anche perché è molto illuminato, c'è questa luce meravigliosa di sogno, appunto, bianca ma non accecante, che riveste le pareti di una stanza vuota come il più raffinato dei mobili. In mezzo a questa stanza sta uno sgabello, e su questo sgabello sto io. Sul pavimento, invece se ne sta un foglio di carta da macellaio con adagiate sopra, che paiono addormentate, quattro fette di mortadella tagliata spessa e due panini all'olio dalla crosta dorata. Non sono sola nella stanza; accanto a me, vicino ma non troppo, seduto su due barili di pittura, sta Marcello Mastroianni. E' bellissimo e, ovviamente, fuma una sigaretta. A dire la verità non la fuma; la tiene tra le dita e sembra così affascinato dal fumo che sale in morbide spirali verso il soffitto da dimenticarsi di portarla alla bocca, temendo forse che quel semplice gesto possa spezzare l'incantesimo. I pantaloni grigi sono tutti picchiettati di bianco colato dal pennello che giace silenzioso accanto al suo piede destro.
-Fai i panini? Ho fame.
Anche una semplice frase pronunciata da lui sembra più lenta. Le parole sembrano rotolare nella sua bocca come caramelle, fare un piccolo giro sul palato prima di scivolare giù nella gola e sparire, lasciando dietro di sé solamente un sapore vago che potrebbe benissimo anche non essere mai esistito.
Mi inginocchio e farcisco i panini con la mortadella, ripiegando le fette addormentate e coprendole con il pane fresco, profumato di mattina. Gli porgo il panino e mi risponde con un sorriso garbato e fragile - se potessi, lo imprigionerei in un barattolo per riguardarlo di nascosto, come si fa con le lucciole.
-Hai mai fatto caso al fatto che urlano tutti?
Lo guardo interrogativamente. Certo che ci ho fatto caso.
-Urlano tutti anche quando stanno in silenzio, urlano nelle strade, nelle case, negli autobus. Non dicono niente, però. Stanno fermi quando dovrebbero muoversi e si muovono quando dovrebbero solo aspettare. Appassiscono in movimento e poi, quando si fermano, restano nudi.
Sorrido. Fuori dalla finestra sento un rumore di freni, poi un insulto.
-Tu pensi di essere bella?
Ma non lo so. Penso di essere bella, oppure no? Forse non tutti segretamente pensiamo di essere belli, anche se siamo convintissimi di essere brutti? Magari no. Magari sono io, che in una giornata buona penso sia bello anche quel chewingum appiccicato all'asfalto, che penso che anche nella bruttezza ci sia un certo lato di bellezza tenera. Ma non lo so.
-Secondo te, se fossi vissuta in un tempo diverso, saresti stata diversa?
Forse sì, forse no. Temo di non sapere nemmeno questo.
Spegne la sigaretta su un lato del barile e la lancia sull'involucro che conteneva la mortadella, poi tira un morso al suo panino e le briciole cadono sul pavimento coperto di giornali. Si guarda intorno per un attimo come stupito; ha sempre quell'aria di eterno bambino sopreso di ritrovarsi vivo in questo preciso istante.
-Abbiamo fatto un buon lavoro. Pensare che non avevo mai stuccato una parete. E' divertente, ma adesso mi fanno male le braccia. A fare l'attore non faccio molto esercizio.

-Posso dirti una cosa?
Stavolta sono io a parlare. E' una di quelle volte in cui parli e ti sembra che le parole provengano da chilometri di distanza e ti risultano estranee.
Mi guarda. Riesce sempre a guardarti dal basso verso l'alto anche se le teste sono perfettamente allineate. Sembra che cerchi di guardare oltre un muro immaginario davanti al tuo naso; è uno sguardo che ho visto fare solo ai gatti.
-Sai cos'è bello, cosa penso sia davvero bello, una delle cose più belle?
Continua a guardarmi.
-Sai quando Sylvia ti chiama, "Marselò, Marselò", nella Dolce Vita?
Sgrana gli occhi, alza il sopracciglio.
-Cos'è La Dolce Vita?


martedì 3 settembre 2013

Welcome to San Francisco



È una scintillante mattina di settembre. Sembra che sulla città abbiano rovesciato una boccetta di smalto per  unghie trasparente, di quelli che contengono migliaia di minuscoli e quasi impercettibili brillantini dalla superficie sfaccettata. Mi sento a mio agio a camminare per le instancabili strade di quella che nella mia mente dev’essere San Francisco, un susseguirsi ininterrotto di salite e di discese in grado di rubarti il senso dell’orientamento, appallottolarlo e giocarci a ping pong. Quello che mi colpisce maggiormente sono i colori, che sembrano usciti da un video musicale anni Novanta: brillanti e pirotecnici ma stanchi, artificiali e  falsi come tuo marito quando ti dice che non sei ingrassata durante le vacanze di Natale. Mi arrampico in questo immenso luna park dove ogni salita sembra nascondere il segreto per l’elisir del vero sogno americano; io stessa mi ritrovo vestita come una diva, una starlet sgargiante con le scarpe rosse e la giacca stampata, a dondolare avanti e indietro una borsetta firmata come se fossi nata lì, su quel marciapiede bollente, tra un distributore di preservativi alla frutta e un Apple Store.
 Come in tutti i sogni, il passaggio dalla calma all’azione è racchiuso in un secondo. Basta un millimetro fuori posto e l’incanto si rompe. Questa volta, la miccia è il riflesso che scorgo in una vetrina. Dietro alle mie spalle, senza alcun’ombra di dubbio, si staglia un enorme orso di peluche verde fosforescente, simile a quelli che si vincono alle fiere tirando giù una pila di barattoli di latta con una palla da baseball. Al posto degli occhi ha due bottoni neri scintillanti, e la bocca è curvata all’ingiù, dettaglio che mi fa capire che quell’orsacchiotto è tutt’altro che il pupazzo dei miei sogni di bambina, e che preferirebbe staccarmi il collo con quelle zampette di stoffa piuttosto di giocare con me a nascondino. Mi giro lentamente, proprio come nei film. D’un tratto il rumore del traffico si è fatto lontanissimo e posso percepire ogni singolo fruscio, persino quello più remoto. Adesso l’orso è di fronte a me. È più alto di un paio di centimetri e mi sovrasta. Vista da fuori, la scena deve sembrare esilarante. Come in un film western, una ragazza vestita da diva fronteggia un enorme peluche verde fosforescente sulle strade di San Francisco; al posto della polvere e dell’odore dei cavalli, lo smog cittadino e un invadente profumo di gomma da masticare alla fragola. Comincio a ridacchiare, ma l’orso non sembra gradire. Alza lentamente la zampa destra, i peli sintetici sono intrisi di sporcizia. Lo prendo come il segnale giusto per iniziare a scappare. Mi lancio in una fuga da stunt man tra taxi e macchine sportive, travolgendo vecchie dalle permanenti che sfidano la forza di gravità e i loro piccoli cagnolini sparuti dai collari di diamanti. Mi scapicollo giù per scalinate e discese, inspiegabilmente agile su tacchi vertiginosi che mi fanno sembrare un buffo airone. Ogni tanto giro la testa e lui è ancora lì, a pochi metri da me, veloce e scattante nonostante la mole e l’attrito.
Mi rendo presto conto che la rincorsa non può durare per sempre. Mi serve un diversivo, uno strumento – un’arma. Comincio a girare nervosamente la testa a destra e a sinistra, in cerca di qualcosa che mi venga in aiuto per fermare questo inseguimento. Passo davanti a cestini della spazzatura, negozi di elettrodomestici e di scarpe, poi finalmente lo trovo. La distanza che mi separa da lui è minima in confronto a tutti i chilometri che i miei piedi hanno divorato negli ultimi minuti. Sembra brillare più di ogni altra cosa, piantato solidamente al terreno con i suoi piedini sgargianti. Mi sorride incoraggiante, immobile e statico, ricolmo di speranza. Il distributore è lì, pieno di caramelle colorate, tonde e dure che mi appaiono come l’arma perfetta per penetrare dentro quella corteccia di stoffa e affossare l’imbottitura molliccia che rappresenta le budella del mio improbabile assalitore. Senza pensare, come guidata da una mano divina, mi tolgo la scarpa destra e la fisso per un secondo che mi sembra un secolo. La suola è rovinata, ma si riesce ancora a leggere il nome dello stilista tracciato in eleganti lettere dorate. Il tacco è altissimo e sottile, perfetto per lo scopo che ho in mente. Con un colpo deciso, lo incastro nella fenditura in cui dovrei infilare gli spiccioli per guadagnarmi pochi grammi di paradiso di zucchero. Il colpo va a segno e ferisce mortalmente l’ingranaggio. Il distributore vacilla e poi comincia a vomitare caramelle. Il marciapiede grigiastro si trasforma in una pista variopinta di biglie commestibili, che s’infilano sotto le zampe del mio stupefatto carnefice che, incapace di bilanciare il suo corpo molliccio, cade con un tonfo. Non mi lascio scoraggiare e comincio a tempestarlo di caramelle, che gli bucano la pelliccia. Dai fori esce imbottitura biancastra e il pupazzo, dopo essersi faticosamente rialzato in piedi, inizia a indietreggiare, coprendosi gli occhi con le zampe. In preda all’euforia, in bilico sull’unico piede calzato che mi rimane, agito caramelle nell’aria e me ne porto una alla bocca con aria di trionfo. L’onta è eccessiva e l’orso verde si ritira, scomparendo dalla mia vista al rallentatore, fiaccato dai miei colpi e dall’umiliazione subita. Rimango lì, in equilibrio su una gamba come una gru, masticando la caramella che, per ironia della sorte, tinge la mia saliva dell’esatto colore della pelliccia del mio inseguitore. 

La sera sta calando sulla città, ammantandola come il guanto scuro di un prestigiatore. I colori che mi erano sembrati così falsi al mattino hanno lasciato spazio a una più rassicurante scala di grigi, che ogni tanto permette a qualche tiepido rosso di scalfire timidamente le geometrie cromatiche. Ho camminato tutto il giorno scalza, tenendo in mano l’unica scarpa che mi è rimasta. Mi ritrovo davanti a un ristorante di noodles e mi faccio portare al bancone uno di quei trapezi di cartone, pagando con un paio di banconote stropicciate. Con la scatoletta bollente ben stretta nelle mani, riprendo il mio vagabondare. Tutto sembra addormentato e fiacco; le poche persone che incontro per strada mi passano accanto come fantasmi senza volto. Immersi in questo liquido amniotico, anche i ricordi della mattina appena passata cominciano a sbiadire e a sciogliersi. La noia comincia ad affondare i suoi artigli dentro di me; mi sento stanca e scoraggiata. Inciampo in un vecchio ombrello accartocciato e la scatola dei noodles si riversa sulla mia giacca, macchiandola di sugo. Il momento è propizio, perché alla mia destra lampeggia invitante l’insegna al neon di una lavanderia a gettoni. Getto la scatoletta unta e gocciolante nel primo cestino dell’immondizia che trovo ed entro nella lavanderia. A una prima occhiata mi sembra vuota, poi mi rendo conto di una figura nell’ombra. Sembra trattarsi di un anziano, i pochi capelli che ha sono bianchi e sta armeggiando con una asciugatrice. Mi tolgo la giacca e rimango in maglietta. Compro una dose di detersivo dal distributore automatico e carico la prima lavatrice che trovo, sedendomi poi sulla panca lì di fronte sotto una lampadina che irradia una luce color tuorlo d’uovo, la scarpa ancora stretta nella mano. La giacca vortica in un tripudio di schiuma e bollicine da dietro l’oblò della lavatrice. Il mio riflesso sembra affogare in quel cilindro di acqua sporca e i miei pensieri oscillano, cullati dal rumore dell’asciugatrice.
-E l’altra?
È come se qualcuno mi avesse bruscamente svegliata da un sonno tranquillo. Mi giro in direzione della voce che mi ha strappata al mio vagabondare mentale. È incredibilmente vellutata e sensuale.
-Come?
-No, dico, cosa è successo all’altra scarpa.
Sbatto un paio di volte gli occhi, come instupidita. Davanti a me sorride Sean Connery. Sono in una lavanderia a gettoni in una città che quasi sicuramente è San Francisco, appena scampata all’aggressione di un enorme pupazzo verde a forma di orso, con l’unica scarpa superstite stretta nel pugno, a guardare la mia giacca macchiata di noodles navigare in una lavatrice, e davanti a me sorride Sean Connery. Sfoggia uno dei suoi migliori sorrisi sbilenchi – sono Bond, James Bond – e mi porge la mano.
-Sono…
-Connery, Sean Connery - rispondo in trance, guardandolo come se davanti a me ci fosse Babbo Natale. È tutto così surreale da sembrarmi perfettamente sensato. Lui continua a sorridere. Ho l’impressione che la sua faccia possa spaccarsi da un momento all’altro, come una maschera di cera.
-Non è raro che mi riconoscano.
-Sì, immagino.
Dondolo i piedi avanti e indietro in religioso silenzio come una bambina al suo primo giorno di scuola. Poi prendo coraggio.
-Senta, signor Connery…
-Chiamami Sean.
-Sì, signor Sean, senta, lo so che magari lei era qui per farsi i fatti suoi, però non è che le dispiacerebbe farmi un…
-Autografo? Ma certo.
Sorrido estasiata, poi mi ricordo che non ho né foglio né penna. Mi rannuvolo e lui sembra accorgersene, perché ribatte premuroso:
-Non ti preoccupare, posso autografarti la maglietta.
Sono prostrata davanti alla magnanimità di quell’uomo, che tira fuori un elegantissimo pennarello nero indelebile che sono sicura sarà costato centinaia di dollari – dopotutto è Sean Connery – e mi regala uno svolazzante autografo sulla maglia, all’altezza della pancia.
Poi gli chiedo, incuriosita:
-Signor Connery… voglio dire, Sean, lei gira sempre con i pennarelli indelebili nel taschino quando va in lavanderia?
Lui alza il sopracciglio destro, mi concede un primo piano che buca lo schermo e, con una voce suadente e densa come una colata di miele, mi dice, pochi secondi prima che la sveglia suoni:
-Ricordati: se sei Sean Connery, mai andare in lavanderia senza un indelebile. La gente te li chiede lo stesso, li fai con la penna, poi al primo lavaggio si cancellano e questi si ammazzano. Se sei Sean Connery, hai delle responsabilità sulle spalle. Un po’ come James Bond.