domenica 22 settembre 2013

Cos'è La Dolce Vita?

Un sogno bellissimo. Come tutte le cose belle, ho dovuto lottare per tenermelo stretto, per evitare che voli via, che si sbricioli tra le mani come pagine di vecchi libri ingialliti. Bellissimo perché so sin dall'inizio che è un sogno, e dunque non c'è traccia di quella fretta golosa ingorda che ho nella vita e quella sensazione che il tempo non basti mai. Bellissimo anche perché è molto illuminato, c'è questa luce meravigliosa di sogno, appunto, bianca ma non accecante, che riveste le pareti di una stanza vuota come il più raffinato dei mobili. In mezzo a questa stanza sta uno sgabello, e su questo sgabello sto io. Sul pavimento, invece se ne sta un foglio di carta da macellaio con adagiate sopra, che paiono addormentate, quattro fette di mortadella tagliata spessa e due panini all'olio dalla crosta dorata. Non sono sola nella stanza; accanto a me, vicino ma non troppo, seduto su due barili di pittura, sta Marcello Mastroianni. E' bellissimo e, ovviamente, fuma una sigaretta. A dire la verità non la fuma; la tiene tra le dita e sembra così affascinato dal fumo che sale in morbide spirali verso il soffitto da dimenticarsi di portarla alla bocca, temendo forse che quel semplice gesto possa spezzare l'incantesimo. I pantaloni grigi sono tutti picchiettati di bianco colato dal pennello che giace silenzioso accanto al suo piede destro.
-Fai i panini? Ho fame.
Anche una semplice frase pronunciata da lui sembra più lenta. Le parole sembrano rotolare nella sua bocca come caramelle, fare un piccolo giro sul palato prima di scivolare giù nella gola e sparire, lasciando dietro di sé solamente un sapore vago che potrebbe benissimo anche non essere mai esistito.
Mi inginocchio e farcisco i panini con la mortadella, ripiegando le fette addormentate e coprendole con il pane fresco, profumato di mattina. Gli porgo il panino e mi risponde con un sorriso garbato e fragile - se potessi, lo imprigionerei in un barattolo per riguardarlo di nascosto, come si fa con le lucciole.
-Hai mai fatto caso al fatto che urlano tutti?
Lo guardo interrogativamente. Certo che ci ho fatto caso.
-Urlano tutti anche quando stanno in silenzio, urlano nelle strade, nelle case, negli autobus. Non dicono niente, però. Stanno fermi quando dovrebbero muoversi e si muovono quando dovrebbero solo aspettare. Appassiscono in movimento e poi, quando si fermano, restano nudi.
Sorrido. Fuori dalla finestra sento un rumore di freni, poi un insulto.
-Tu pensi di essere bella?
Ma non lo so. Penso di essere bella, oppure no? Forse non tutti segretamente pensiamo di essere belli, anche se siamo convintissimi di essere brutti? Magari no. Magari sono io, che in una giornata buona penso sia bello anche quel chewingum appiccicato all'asfalto, che penso che anche nella bruttezza ci sia un certo lato di bellezza tenera. Ma non lo so.
-Secondo te, se fossi vissuta in un tempo diverso, saresti stata diversa?
Forse sì, forse no. Temo di non sapere nemmeno questo.
Spegne la sigaretta su un lato del barile e la lancia sull'involucro che conteneva la mortadella, poi tira un morso al suo panino e le briciole cadono sul pavimento coperto di giornali. Si guarda intorno per un attimo come stupito; ha sempre quell'aria di eterno bambino sopreso di ritrovarsi vivo in questo preciso istante.
-Abbiamo fatto un buon lavoro. Pensare che non avevo mai stuccato una parete. E' divertente, ma adesso mi fanno male le braccia. A fare l'attore non faccio molto esercizio.

-Posso dirti una cosa?
Stavolta sono io a parlare. E' una di quelle volte in cui parli e ti sembra che le parole provengano da chilometri di distanza e ti risultano estranee.
Mi guarda. Riesce sempre a guardarti dal basso verso l'alto anche se le teste sono perfettamente allineate. Sembra che cerchi di guardare oltre un muro immaginario davanti al tuo naso; è uno sguardo che ho visto fare solo ai gatti.
-Sai cos'è bello, cosa penso sia davvero bello, una delle cose più belle?
Continua a guardarmi.
-Sai quando Sylvia ti chiama, "Marselò, Marselò", nella Dolce Vita?
Sgrana gli occhi, alza il sopracciglio.
-Cos'è La Dolce Vita?


martedì 3 settembre 2013

Welcome to San Francisco



È una scintillante mattina di settembre. Sembra che sulla città abbiano rovesciato una boccetta di smalto per  unghie trasparente, di quelli che contengono migliaia di minuscoli e quasi impercettibili brillantini dalla superficie sfaccettata. Mi sento a mio agio a camminare per le instancabili strade di quella che nella mia mente dev’essere San Francisco, un susseguirsi ininterrotto di salite e di discese in grado di rubarti il senso dell’orientamento, appallottolarlo e giocarci a ping pong. Quello che mi colpisce maggiormente sono i colori, che sembrano usciti da un video musicale anni Novanta: brillanti e pirotecnici ma stanchi, artificiali e  falsi come tuo marito quando ti dice che non sei ingrassata durante le vacanze di Natale. Mi arrampico in questo immenso luna park dove ogni salita sembra nascondere il segreto per l’elisir del vero sogno americano; io stessa mi ritrovo vestita come una diva, una starlet sgargiante con le scarpe rosse e la giacca stampata, a dondolare avanti e indietro una borsetta firmata come se fossi nata lì, su quel marciapiede bollente, tra un distributore di preservativi alla frutta e un Apple Store.
 Come in tutti i sogni, il passaggio dalla calma all’azione è racchiuso in un secondo. Basta un millimetro fuori posto e l’incanto si rompe. Questa volta, la miccia è il riflesso che scorgo in una vetrina. Dietro alle mie spalle, senza alcun’ombra di dubbio, si staglia un enorme orso di peluche verde fosforescente, simile a quelli che si vincono alle fiere tirando giù una pila di barattoli di latta con una palla da baseball. Al posto degli occhi ha due bottoni neri scintillanti, e la bocca è curvata all’ingiù, dettaglio che mi fa capire che quell’orsacchiotto è tutt’altro che il pupazzo dei miei sogni di bambina, e che preferirebbe staccarmi il collo con quelle zampette di stoffa piuttosto di giocare con me a nascondino. Mi giro lentamente, proprio come nei film. D’un tratto il rumore del traffico si è fatto lontanissimo e posso percepire ogni singolo fruscio, persino quello più remoto. Adesso l’orso è di fronte a me. È più alto di un paio di centimetri e mi sovrasta. Vista da fuori, la scena deve sembrare esilarante. Come in un film western, una ragazza vestita da diva fronteggia un enorme peluche verde fosforescente sulle strade di San Francisco; al posto della polvere e dell’odore dei cavalli, lo smog cittadino e un invadente profumo di gomma da masticare alla fragola. Comincio a ridacchiare, ma l’orso non sembra gradire. Alza lentamente la zampa destra, i peli sintetici sono intrisi di sporcizia. Lo prendo come il segnale giusto per iniziare a scappare. Mi lancio in una fuga da stunt man tra taxi e macchine sportive, travolgendo vecchie dalle permanenti che sfidano la forza di gravità e i loro piccoli cagnolini sparuti dai collari di diamanti. Mi scapicollo giù per scalinate e discese, inspiegabilmente agile su tacchi vertiginosi che mi fanno sembrare un buffo airone. Ogni tanto giro la testa e lui è ancora lì, a pochi metri da me, veloce e scattante nonostante la mole e l’attrito.
Mi rendo presto conto che la rincorsa non può durare per sempre. Mi serve un diversivo, uno strumento – un’arma. Comincio a girare nervosamente la testa a destra e a sinistra, in cerca di qualcosa che mi venga in aiuto per fermare questo inseguimento. Passo davanti a cestini della spazzatura, negozi di elettrodomestici e di scarpe, poi finalmente lo trovo. La distanza che mi separa da lui è minima in confronto a tutti i chilometri che i miei piedi hanno divorato negli ultimi minuti. Sembra brillare più di ogni altra cosa, piantato solidamente al terreno con i suoi piedini sgargianti. Mi sorride incoraggiante, immobile e statico, ricolmo di speranza. Il distributore è lì, pieno di caramelle colorate, tonde e dure che mi appaiono come l’arma perfetta per penetrare dentro quella corteccia di stoffa e affossare l’imbottitura molliccia che rappresenta le budella del mio improbabile assalitore. Senza pensare, come guidata da una mano divina, mi tolgo la scarpa destra e la fisso per un secondo che mi sembra un secolo. La suola è rovinata, ma si riesce ancora a leggere il nome dello stilista tracciato in eleganti lettere dorate. Il tacco è altissimo e sottile, perfetto per lo scopo che ho in mente. Con un colpo deciso, lo incastro nella fenditura in cui dovrei infilare gli spiccioli per guadagnarmi pochi grammi di paradiso di zucchero. Il colpo va a segno e ferisce mortalmente l’ingranaggio. Il distributore vacilla e poi comincia a vomitare caramelle. Il marciapiede grigiastro si trasforma in una pista variopinta di biglie commestibili, che s’infilano sotto le zampe del mio stupefatto carnefice che, incapace di bilanciare il suo corpo molliccio, cade con un tonfo. Non mi lascio scoraggiare e comincio a tempestarlo di caramelle, che gli bucano la pelliccia. Dai fori esce imbottitura biancastra e il pupazzo, dopo essersi faticosamente rialzato in piedi, inizia a indietreggiare, coprendosi gli occhi con le zampe. In preda all’euforia, in bilico sull’unico piede calzato che mi rimane, agito caramelle nell’aria e me ne porto una alla bocca con aria di trionfo. L’onta è eccessiva e l’orso verde si ritira, scomparendo dalla mia vista al rallentatore, fiaccato dai miei colpi e dall’umiliazione subita. Rimango lì, in equilibrio su una gamba come una gru, masticando la caramella che, per ironia della sorte, tinge la mia saliva dell’esatto colore della pelliccia del mio inseguitore. 

La sera sta calando sulla città, ammantandola come il guanto scuro di un prestigiatore. I colori che mi erano sembrati così falsi al mattino hanno lasciato spazio a una più rassicurante scala di grigi, che ogni tanto permette a qualche tiepido rosso di scalfire timidamente le geometrie cromatiche. Ho camminato tutto il giorno scalza, tenendo in mano l’unica scarpa che mi è rimasta. Mi ritrovo davanti a un ristorante di noodles e mi faccio portare al bancone uno di quei trapezi di cartone, pagando con un paio di banconote stropicciate. Con la scatoletta bollente ben stretta nelle mani, riprendo il mio vagabondare. Tutto sembra addormentato e fiacco; le poche persone che incontro per strada mi passano accanto come fantasmi senza volto. Immersi in questo liquido amniotico, anche i ricordi della mattina appena passata cominciano a sbiadire e a sciogliersi. La noia comincia ad affondare i suoi artigli dentro di me; mi sento stanca e scoraggiata. Inciampo in un vecchio ombrello accartocciato e la scatola dei noodles si riversa sulla mia giacca, macchiandola di sugo. Il momento è propizio, perché alla mia destra lampeggia invitante l’insegna al neon di una lavanderia a gettoni. Getto la scatoletta unta e gocciolante nel primo cestino dell’immondizia che trovo ed entro nella lavanderia. A una prima occhiata mi sembra vuota, poi mi rendo conto di una figura nell’ombra. Sembra trattarsi di un anziano, i pochi capelli che ha sono bianchi e sta armeggiando con una asciugatrice. Mi tolgo la giacca e rimango in maglietta. Compro una dose di detersivo dal distributore automatico e carico la prima lavatrice che trovo, sedendomi poi sulla panca lì di fronte sotto una lampadina che irradia una luce color tuorlo d’uovo, la scarpa ancora stretta nella mano. La giacca vortica in un tripudio di schiuma e bollicine da dietro l’oblò della lavatrice. Il mio riflesso sembra affogare in quel cilindro di acqua sporca e i miei pensieri oscillano, cullati dal rumore dell’asciugatrice.
-E l’altra?
È come se qualcuno mi avesse bruscamente svegliata da un sonno tranquillo. Mi giro in direzione della voce che mi ha strappata al mio vagabondare mentale. È incredibilmente vellutata e sensuale.
-Come?
-No, dico, cosa è successo all’altra scarpa.
Sbatto un paio di volte gli occhi, come instupidita. Davanti a me sorride Sean Connery. Sono in una lavanderia a gettoni in una città che quasi sicuramente è San Francisco, appena scampata all’aggressione di un enorme pupazzo verde a forma di orso, con l’unica scarpa superstite stretta nel pugno, a guardare la mia giacca macchiata di noodles navigare in una lavatrice, e davanti a me sorride Sean Connery. Sfoggia uno dei suoi migliori sorrisi sbilenchi – sono Bond, James Bond – e mi porge la mano.
-Sono…
-Connery, Sean Connery - rispondo in trance, guardandolo come se davanti a me ci fosse Babbo Natale. È tutto così surreale da sembrarmi perfettamente sensato. Lui continua a sorridere. Ho l’impressione che la sua faccia possa spaccarsi da un momento all’altro, come una maschera di cera.
-Non è raro che mi riconoscano.
-Sì, immagino.
Dondolo i piedi avanti e indietro in religioso silenzio come una bambina al suo primo giorno di scuola. Poi prendo coraggio.
-Senta, signor Connery…
-Chiamami Sean.
-Sì, signor Sean, senta, lo so che magari lei era qui per farsi i fatti suoi, però non è che le dispiacerebbe farmi un…
-Autografo? Ma certo.
Sorrido estasiata, poi mi ricordo che non ho né foglio né penna. Mi rannuvolo e lui sembra accorgersene, perché ribatte premuroso:
-Non ti preoccupare, posso autografarti la maglietta.
Sono prostrata davanti alla magnanimità di quell’uomo, che tira fuori un elegantissimo pennarello nero indelebile che sono sicura sarà costato centinaia di dollari – dopotutto è Sean Connery – e mi regala uno svolazzante autografo sulla maglia, all’altezza della pancia.
Poi gli chiedo, incuriosita:
-Signor Connery… voglio dire, Sean, lei gira sempre con i pennarelli indelebili nel taschino quando va in lavanderia?
Lui alza il sopracciglio destro, mi concede un primo piano che buca lo schermo e, con una voce suadente e densa come una colata di miele, mi dice, pochi secondi prima che la sveglia suoni:
-Ricordati: se sei Sean Connery, mai andare in lavanderia senza un indelebile. La gente te li chiede lo stesso, li fai con la penna, poi al primo lavaggio si cancellano e questi si ammazzano. Se sei Sean Connery, hai delle responsabilità sulle spalle. Un po’ come James Bond.