domenica 6 ottobre 2013

Un biglietto di sola andata

Mi alzo senza far rumore. Il quadrante del mio orologio segna le tre e mezza. E' notte fonda e fuori c'è un silenzio irreale, spaccato ogni tanto solamente da qualche sinistro fruscio. Il bosco è immerso nell'ombra e a illuminare i miei piedi scalzi c'è solo la luce del lampione che filtra dalla finestra. Esco fuori così, in pigiama, senza scarpe. Fa freddo e al contatto con i gradini di pietra della scala la mia pelle si riduce in tante minuscole capocchie di spillo. Quando raggiungo il prato l'erba bagnata mi solletica la pianta dei piedi e mi confonde: sarà un sogno anche stavolta?
Sembra una fotografia. Il lampione vomita una luce pallida e malata, di quel giallo verdastro che a volte prende il tuorlo dell'uovo quando rimane troppo nell'acqua che bolle. Si riversa sulla macchina parcheggiata lì sotto, tra ciuffi d'erba e qualche pietra muschiosa. Non si vede l'interno, i vetri sono coperti di brina. Il mio respiro si condensa in nuvolette dolciastre che sembrano non volersi staccare dalle mie labbra screpolate. Mi sembra che mi sanguini la gengiva, sento sapore di ruggine sui denti. Ci passo sopra la lingua per essere sicura che siano ancora lì, che non sia uno di quei sogni in cui mi metto a sputarli, bianchi e lucidi corpi estranei che allineo sul palmo della mia mano prima di risvegliarmi sudata, con le tempie che pulsano. Sono ancora tutti lì in fila, da bravi soldatini. Ora posso finalmente rivolgere la mia attenzione alla macchina.

Capisco che devo entrare, anche se non ne ho voglia. Mi sembra che dentro ci sia qualcosa che cerca di uscire a tutti i costi, mi sembra che l'aria sia diventata improvvisamente troppo piena. Avvicino la mano sulla maniglia e mi sembra di avvertire un battito, come se stessi stringendo un polso pieno di vene. La apro e mi infilo nel sedile del passeggero, poi richiudo la portiera.
Dietro di me non si vede nulla. Un ragno ha tessuto una ragnatela intricatissima, una matassa bianca che ha avvolto ogni cosa e ricamato merletti astratti nell'aria, aggrappandosi ad ogni angolo e creandone di nuovi dove non era riuscita a incontrarne, saturando lo spazio e ingoiando l'ossigeno. E' bellissimo e bruttissimo allo stesso tempo. So che è ancora lì, sento le sue zampette arrampicarsi in un angolo imprecisato della macchina e so con certezza che avvolgerà anche me, ma non mi va di andarmene. Non ho paura, ma solo un senso di nausea. Il sapore di ruggine si fa sempre più forte. Sputo sul cruscotto e un liquido nerastro cola dalle mie labbra. Arriccio il naso: è inchiostro. Fisso affascinata la macchia disegnare ghirigori sulla plastica e penso che chi è dotato di un eccessivo senso estetico è destinato a soffrire, soffrire per le cose belle perché sembrano scoppiarti nel petto, sembrano falchi dagli artigli acuminati pronti a farsi strada dalla tua cassa toracica tagliando tutto quello che incontrano, e soffrire per le cose brutte, perché racchiudono in sé una forma di bellezza che invece di sbocciare è appassita in silenzio prima del tempo. Un biglietto di sola andata verso la tristezza.

Mentre penso questo, il ragno ha già intessuto la sua tela attorno alle mie gambe e mi sta imprigionando lentamente. Non mi importa, chiudo gli occhi, rilasso i muscoli, passo la lingua sui denti: sì, questa notte ci sono ancora tutti.

Nessun commento:

Posta un commento