martedì 24 dicembre 2013

Diamond Dogs

Apro la casella gmail. Le stelline gialle si susseguono, sembra di stare in una puntata di Star Trek. Premo "cestina" continuamente - non mi interessa un buono sconto per una mastoplastica, niente cena per due in ristorante messicano, niente presentazione di un libro la cui copertina è scritta in Comic Sans, spam, spam, spam. Poi, a un certo punto, un'e-mail attira la mia attenzione. Il mittente è testualmente: Tony Visconti. Per chi non lo sapesse, Tony Visconti è il produttore storico di David Bowie. Mettiamola così: se David Bowie è Dio, Tony Visconti è l'arcangelo Gabriele. Quindi l'arcangelo Gabriele mi ha appena mandato una mail. In questa santissima mail c'è scritto che David Bowie si presterà a un'intervista telefonica con me alle mie due del pomeriggio. Quindi, alle due del pomeriggio intervisterò Dio.

Mi lavo e mi profumo come se David Bowie potesse captare con le sue santissime narici il bagnoschiuma dalla cornetta del suo santissimo telefono. Solitamente sostengo che il meglio del mio lavoro risieda nel fatto che posso permettermi di passare le mie giornate in pigiama, o che al massimo debba cambiarmi maglione per mostrarmi a mezzobusto su Skype, mentre in gran segreto indosso ancora i pantaloni del pigiama. Ma oggi non è così. Un'intervista con Dio non può essere condotta in pigiama.
Mi vesto con cura. Sorrido allo specchio e controllo di non avere nulla tra i denti. Sono le tredici e cinquantasette. Mancano tre minuti e il mio telefono squillerà e qualcuno mi passerà David Bowie.

Niente panico. Uno due tre - prova. Fisso il telefono come un credente fisserebbe la finestra del Papa alla vigilia di Natale. Lo fisso così tanto che mi bruciano gli occhi. E poi, finalmente, squilla.
Lascio passare qualche secondo per non dare l'impressione di essere lì da ore, e poi rispondo.
-Are you ready?
Mai stata più ready di così.
Sento un rumore, il telefono passa di mano ed eccolo.
-Hello?
Mi sciolgo come neve al sole. Vorrei dirgli di cantarmi Station to Station lì, subito, senza introduzioni. Cantami quello che vuoi, David, anche Old McDonald Has a Farm. Silent Night. Il pulcino Pio. Poi, però, succede una cosa strana.

All'improvviso non sono più nella mia stanza. Ho ancora David Bowie al telefono, ma sono in un prato verdissimo. Mentre David Bowie parla, un sacco di bassotti grassi dal pelo rossiccio corrono contro di me. Mi sembra di stare in una di quelle gif animate in cui animali grassi fanno cose strane. In questa gif animata un fiume interminabile di bassotti grassissimi corre verso di me, mentre David Bowie mi racconta The Next Day al telefono. Dio parla e i bassotti m'assalgono, si dimenano, muovono le loro zampette corte, sembrano volare grazie alla combinazione tra la loro bassa statura, la gravità e le orecchie troppo grosse. Mi viene da ridere ma non posso, perché c'è David Bowie al telefono. Mi viene in mente una tristissima battuta sui bassotti e Diamond Dogs e devo reprimere una risatina. Uno due tre - calma.

Poi apro gli occhi ed è la vigilia di Natale.

giovedì 12 dicembre 2013

Lilac Wine


Sono nella casa di un uomo che non ho mai visto, eppure mi sembra di conoscerlo benissimo. Non ne sono sicura ma ne avverto il sentore; sembra quasi un retrogusto amarognolo sulla lingua. È in cucina e sta tagliando una grossa cipolla bianca in minuscole fettine, che si abbattono sul tagliere di legno l’una dopo l’altra senza fare rumore. Il coltello che tiene in mano è grande e affilato e la lama riflette il globo del lampadario. A un certo punto, l’ultima fettina di cipolla si tinge di rosso. L’uomo s’è tagliato un dito e adesso mi guarda. Il mio sguardo corre dai suoi occhi alla bolla di sangue che si sta formando sul polpastrello. Penso a come sarebbe sfiorarla di un millimetro e disfare l’equilibrio precario della superficie scarlatta.
-Vai in salotto mentre finisco di cucinare, mi stai distraendo, è colpa tua
mi dice, e io mi alzo in silenzio. In salotto, di fronte al divano, c’è un armadio nero. Un’anta è socchiusa. Mi avvicino e lo apro. Davanti a me si dispiega una serie di coltelli dal manico d’acciaio di varie dimensioni. Cerco di abbracciarli tutti con lo sguardo ma non ci riesco. Immagino come devono sembrare minuscoli riflessi nell’oscurità della mia pupilla e rabbrividisco. Dalla cucina, sento il rumore delle cipolle lasciate a soffriggere in agonia nell’olio bollente. Mi viene improvvisamente la nausea. Devo vomitare. Apro la porta di quello che penso sia il bagno e, non appena la richiudo, mi rendo conto di non essere più nella casa di prima.

Davanti a me si srotola una strada statale fiancheggiata da tronchi d’albero bruciati, reduci senza dubbio da un incendio devastante. I loro monconi cercano di protendersi il più possibile verso il cielo, neri come il carbone, ma il risultato è grottesco. La nebbia li inghiotte uno ad uno. La riga bianca spartitraffico che parte dai miei piedi si perde dopo pochi metri. Fa freddo, e io mi accorgo di non avere addosso altro che un leggero vestito estivo. Rabbrividisco e mi stringo in un goffo abbraccio. Penso – Sono sola. Ma non è vero.
Mi bastano pochi passi per incontrare una donna.
È seduta sul ciglio della strada e sulle labbra porta un rossetto di un rosso così acceso che mi dà le vertigini. Mi sembra una cosa così oscena che sono costretta a distogliere lo sguardo per un attimo, prima di analizzarla. È giovane e bella. È bionda, ha lo smalto scheggiato sulla punta delle dita e stringe tra le mani una borsetta di cuoio. Attorno agli occhi ha due cerchi nerastri, non capisco se l’abbiano picchiata o se non dorma da giorni. Di punto in bianco apre la bocca e sospira: le labbra rosse si dischiudono e noto che uno degli incisivi è rotto in un angolo. Non so perché, ma quel particolare mi turba più del colore del rossetto. Un brivido mi corre dalla nuca alla fine della colonna vertebrale.

-Chi sei?
dico. Lei mi guarda appena e si porta un dito alle labbra nel gesto del silenzio.
-Sta morendo
mi dice, indicando un punto davanti e sé. Riesco a distogliere un attimo lo sguardo dalla sua bocca e a guardare in direzione del suo dito. Accucciato sul cemento, in mezzo alla strada, sta un piccolo cerbiatto.
È quasi immobile, non fosse per il petto che, impercettibilmente, si muove su e giù. Ha gli occhi neri spalancati e riesco a sentire la sua paura come spilli sulla pelle. Mi sembra che il sangue nelle vene scorra più denso del solito.
-Cosa gli è successo?
-L’hanno ferito, non c’è più niente da fare. Tra qualche ora sarà morto.
La ragazza si accende una sigaretta. La fiamma dell’accendino le illumina il viso per un secondo, poi rimane solo la punta arroventata della sigaretta. Vengo presa da un irrefrenabile scatto d’ira.
-E tu te ne stai qui senza fare niente? Lo guardi morire?
Lei mi guarda con l’indifferenza negli occhi.
-A volte non c’è proprio nient’altro da fare che guardare le cose morire.
La nausea ritorna. Il cerbiatto mi guarda, come se potessi fare qualcosa per salvarlo. Sono troppo vigliacca per ucciderlo. Mi tremano le mani, reprimo un conato.

Poi, all’improvviso, sento una voce dietro di me mi chiama.
-
È pronto, puoi venire in cucina adesso.
Mi giro e mi ritrovo di nuovo nel salotto. Del cerbiatto e della ragazza bionda, non c’è più alcuna traccia.
L’uomo mi guarda con la testa inclinata verso destra. Mi porge un calice di vino denso e di un rosso troppo acceso. Conosco quel colore: l’ho visto pochi istanti fa sulle labbra di quella ragazza.
-Hai fame?
Annuisco.

mercoledì 4 dicembre 2013

David Foster Wallace e il Muro di Berlino





È
una mattina tanto impregnata di noia che quasi facciamo fatica a galleggiare. Parlo al plurale perché non sono sola: seduto accanto a me sta David Foster Wallace. In testa ha la sua tipica fascia da tennis, i capelli avrebbero bisogno di una lavata, il sorriso è un po’ sornione. Mi chiedo se si sia appena fatto una canna. Tra le mani stringe la mia tazza preferita dell’Ikea con una bustina di tè verde immersa nell’acqua bollente.
Io mi lamento. Vorrei avere un naso diverso, mi sono stufata del mio. Ieri sera mi sono guardata allo specchio e mi sono resa conto di non volere più il mio naso, ma che ci posso fare? Mica lo posso impacchettare e rispedire al mittente. “Mi sa che me lo devo tenere” dico a David con aria funerea, mentre smanetto sul portatile.

Lui sbuffa. Appoggia la tazza sul pavimento e dal nulla, con una mossa da prestigiatore, tira fuori una valigetta di cuoio marrone. La apre e – meraviglia! Allineati uno dietro l’altro, come piccoli soldatini in attesa, stanno nasi di diversa fattura: grandi, piccoli, aquilini, appuntiti, ce n’è per tutti i gusti. Dei piccoli nastrini li tengono fermi. Rimango a fissare affascinata il contenuto della valigetta e ringrazio David. Lui mi guarda con un sopracciglio alzato. “Senti, non è che voglia farmi gli affari tuoi, ma non è tanto bello che tu voglia cambiare naso. Hai un bel naso. Poi nella vita bisogna imparare ad accettarsi, non è che puoi sempre avere quello che vuoi, lo diceva anche Mick Jagger. Che ne sai che magari un giorno ti sveglierai e rimpiangerai il tuo vecchio naso? Sei cresciuta con lui. E poi te la ricordi la storia del naso di Kovalev, quella di Gogol? Che faresti se fosse il tuo naso a stufarsi di te?”

Stavolta sono io a sbuffare. Continuo a guardare i nasi, li sfioro con la punta delle dita. Sono morbidi. Mi ricordano dei tortellini. “Secondo te quale mi starebbe meglio?” gli chiedo sognante.
In quel momento si accende la televisione. Si accende proprio da sola, come nei film horror, solo che è mattina quindi non ci impauriamo più di tanto.
C’è un’edizione speciale del telegiornale. Le immagini sullo schermo ci mostrano tafferugli, persone con picconi intente a spaccare un muro. Tirano giù i mattoni, passano da una parte all’altra del muro, lo scavalcano, si abbracciano, piangono. Una voce fuori campo ci informa che è stato appena abbattuto il Muro di Berlino.
“Ma cosa dicono! Il Muro di Berlino è già caduto” dico un po’ infastidita. David sorride con l’aria di chi pensa che sei un completo idiota.
“E che vuol dire, scusa. Il tuo ragionamento fa acqua da tutte le parti. Tu non sei mai caduta? Questo vuol dire che non puoi cadere di nuovo?”
Mi sto innervosendo. Ma che dice questo? E meno male che lo osannano come una delle menti più brillanti del Novecento. Wittgenstein deve avergli dato alla testa.

In quel momento suonano il campanello. David sobbalza e con il piede rovescia la tazza sul pavimento. Lo guardo in cagnesco e vado ad aprire la porta di casa. Mio papà è sulla soglia, sorridente. Ha in testa un berretto color sabbia e sulla spalla una canna da pesca inguainata in una custodia nera.
“Ho pensato di chiederti se ti andava di andare a pescare per festeggiare.”
“Festeggiare cosa?”
“La caduta del muro di Berlino!”
Dalla mia stanza, arriva una voce soffocata.
“Che fai, allora, questo naso lo vuoi o non lo vuoi?”

Mi sveglio.