venerdì 8 agosto 2014

Un'idea del cazzo.




Sono seduta su un divano color verde bottiglia. Diverse bruciature di sigaretta, piccole e tonde, disegnano costellazioni sul velluto consunto. Con un dito le percorro, pensando al Sagittario.

Sasha mi passa una bottiglia di birra, che è appunto color del divano. Se sia venuto prima il divano o la bottiglia questo non lo so, un po' come la storia dell'uovo o della gallina. 

Sasha è Sasha Grey. Sta seduta alla mia destra con le gambe piegate sotto il sedere. Ha addosso una maglia degli Iron Maiden, con un buco piccino sotto l'ascella sinistra.

Mi dice: “Mi annoio.”
Le rispondo: “Io pure.”

Sbuffiamo. La televisione ci vomita addosso un programma nonsense in cui un ciccione giapponese deve completare un percorso a ostacoli. Ci sono le risate pre-registrate, e io inevitabilmente ripenso a quel passo di un libro di Chuck Palahniuk – era Palahniuk? - in cui si dice che le risate nei telefilm appartengono a gente morta da un pezzo. Ride bene chi ride ultimo.

Suonano alla porta: è il ragazzo delle pizze. Ha addosso una maglia bianca con righe arancioni e un cappellino coordinato. Ovviamente è molto sorpreso dal fatto che Sasha Grey gli stia allungando un paio di banconote.

Le dice: “Bella maglietta.”
Lei risponde: “Grazie.”
E chiude la porta.

La pizza è tagliata a fette, ma bisogna mettere un dito sul formaggio fuso per staccarla dal cartone. Brucia. Impreco, e Sasha ride.

Penso che sono con Sasha Grey e, nonostante siamo evidentemente amiche in questo sogno, altrimenti non saremmo qui su un divano color verde bottiglia a mangiare pizza nel cartone, mi sembra stupido non chiederle qualcosa sulla sua carriera.

Le chiedo: “Ma senti un po', com'è lavorare nel porno?”
Mi risponde: “Un lavoro come un altro. Ma devi farti sempre la ceretta.”

Penso a questa cosa della ceretta e a io che non posso farla perché mi si spaccano i capillari e le gambe mi diventano uno spettacolo pirotecnico.

Le dico: “Io la ceretta non la posso fare.”
Mi risponde: “Sarebbe un problema.”

Il ciccione giapponese nel programma alla televisione sta saltando su piccole piattaforme di gomma su una piscina. Ovviamente alla terza cade nell'acqua. Le risate si fanno fortissime. Mi chiedo se siano risate di giapponesi o se siano risate standard, registrate in qualche studio di Hollywood. Più le ascolto, più mi sembra di non aver mai sentito qualcuno ridere in vita mia.
Sasha si gira verso di me.

Mi dice, con la bocca piena: “Questo programma fa schifo.”

Stavolta non dico niente, ma annuisco. Mi sono bruciata il palato con il formaggio bollente e ho gli occhi pieni di lacrime. Una rotola giù per la guancia e si schianta senza speranza su un angolo del cartone della pizza. La guardo finché non s'asciuga. Penso a tutte le lacrime evaporate nella storia dell'umanità. Ci si potrebbe riempire piscine, oceani, laghetti montani, innumerevoli taniche di benzina, chissà quanti cartoni di succo d'arancia. Dovremmo trovare un modo per riciclare le lacrime.

Lo dico a Sasha. Mi guarda per un attimo.

“Ma sai che è proprio un'idea del cazzo,” mi dice, mentre mi sveglio.

mercoledì 18 giugno 2014

La cosa più disgustosa che abbia mai visto.

Nella sala d'aspetto del dottore c'è una pianta di plastica dalle foglie larghe, uguale in tutto e per tutto alla fantasia del vestito di un'anziana seduta di fianco a me. Guardo le sue mani grinzose artigliare una borsa di plastica piena di fogli e scatolette di medicinali vuoti, su cui ha annotato le dosi con grafia tremula e incerta. Guardo le mie mani, la pelle chiara tesa e tonica, le unghie rosa come piccole mandorle, e penso che anche loro un giorno diventeranno di cartapesta.

Non mi sento tanto bene. Mi sono svegliata con una sorta di nausea che mi ha accompagnata per tutta la mattina. Mi sono guardata allo specchio e ho visto il riflesso di una persona stanca e abbattuta, un po' come gli alberi che si affacciano dai cavalcavia delle autostrade. Mentre mi vestivo, ho avuto l'impressione strana e sgradevole che il sangue nelle mie vene si fosse fatto improvvisamente più denso e faticasse a scorrere. Potevo sentire il battito del cuore rimbombare nelle mie orecchie, e all'improvviso mi è sembrato tutto così estraneo e fittizio che ho dovuto smettere di pensare per non avere le vertigini.

Mentre aspettavo l'autobus un bambino si è messo a urlare che non voleva andare a casa. La madre ha cercato di farlo smettere prima con le buone, poi con un ceffone. Lui ha continuato a lamentarsi finché l'autobus non è arrivato e la madre, sconfitta, gli ha rivolto uno sguardo carico di odio sottile. Appena ha incrociato il mio ha abbassato gli occhi, piena di vergogna all'idea che un estraneo avesse captato quell'intimo desiderio di solitudine che, da madre, si sente in imbarazzo a provare. Una volta salita si è seduta lontana da me, accarezzando ostentatamente i capelli ricci del figlio.

La segretaria del dottore ha una voce metallica che mi ricorda quei messaggi pre-registrati dei servizi telefonici. È una donna alta e massiccia, dalle mani grandi e lo sguardo crudele. Batte sulla tastiera di un vecchio computer con insolita ferocia, scrutando di tanto in tanto la fila di persone sedute su queste scomode sedie di plastica verde.

Ad un certo punto, il mio orecchio destro comincia a fischiare in maniera fastidiosa. All'inizio è solo un'eco lontana, che si fa mano a mano più insistente. Mi porto una mano all'orecchio e mi sembra che si muova, un po' come quando i denti da latte ballano prima di ritrovarteli in una mano, piccoli e puntellati di sangue rossastro. Il fischio diventa sempre più acuto e diventa un trapano nella tempia. Mi accascio sulla sedia e gemo. La signora accanto a me dal vestito uguale alla pianta mi appoggia una mano incartapecorita sulla gamba.

“Tutto bene, cara?”

Le parole mi perforano il timpano come chiodi. Scuoto la testa e mi accorgo che mi sudano le mani. Nessuno a parte la signora sembra prestare attenzione a me, e presto anche lei ritorna a fissare il vuoto come se niente fosse.

Stringo l'orecchio tra due dita e mi accorgo che la pelle si è raggrinzita a tal punto da sembrare di carta. Tiro leggermente e l'orecchio si stacca come pelle morta. Mi ritrovo con l'orecchio in mano, grigio e privo di vita. Nessuno si accorge di me, a parte la segretaria che mi guarda con aria schifata.

“Non buttarlo nel cestino, è la cosa più disgustosa che abbia mai visto,” mi dice, indicando un piccolo cilindro di metallo alla sua destra. Rimango lì, mentre il fischio finalmente si placa, con l'orecchio in grembo e uno spiacevole sapore di ruggine in bocca.

Finché il dottore non mi chiama, e la sua voce piano piano si sovrappone con quella insistente della sveglia

sabato 1 febbraio 2014

Schegge.



Quando ero piccola, i miei genitori mi portavano al mare tutte le estati. Lo stabilimento balneare dove andavamo non era grande, anzi, era piuttosto piccolo; le cabine si susseguivano l’una accanto all’altra formando un’ampia striscia di bianco, sormontata da una più sottile rosso cupo; pensavo sempre che somigliassero a un’enorme, sinistra gengiva. Si trovavano su un piano rialzato di legno costruito secondo il principio delle palafitte direttamente sulla sabbia; per andare in spiaggia bisognava scendere dei gradini di legno e non era raro infilarsi una scheggia nel tallone, che poi veniva tolta con un ago sterilizzato alla bell’e meglio con la fiamma di un accendino.

Stanotte mi trovo qui, appoggiata alla ringhiera arrugginita che si affaccia sulla spiaggia e da lì sul mare. Il cielo è grigio e l’acqua sembra un’infinita distesa di mercurio argentato. C’è un vento che porta via e i capelli mi danzano davanti al viso, si infilano in bocca, li scosto con la mano ma ritornano imperterriti. Anche il mio vestito si gonfia e si sgonfia come il petto di un asmatico. Penso. Guardo giù, verso la spiaggia: c’è un cane.
È un bastardo un po’ emaciato; il pelo è grigio, a tratti così rado che si intravede la pelle rosa tesa sulle ossa. Ha il muso affilato e sofferente. Si muove silenzioso sulla sabbia, ogni tanto annusa una conchiglia portata a riva da una mareggiata, la addenta, se la mette in bocca, poi la sputa. Gli dico: “Che ci fai qui?” ma mi ignora, quasi come se volesse sottolineare che io lì non c’entro proprio nulla. Ad un tratto si mette a correre verso le onde: ha visto qualcosa. Improvvisamente si spoglia di quella spossatezza che lo ha caratterizzato fino a un secondo fa e comincia a combattere con qualcosa sotto le onde. Si immerge nell’acqua, poi riaffiora, scuote la testa, si immerge di nuovo. Poi, finalmente, riaffiora. Tra i denti stringe qualcosa, forse un pesce. È grosso, per essere arrivato così a riva. Il muso bagnato del cane si tinge di rosso e brandelli di carne biancastra gli si incastrano tra i peli. Mi guarda direttamente negli occhi per la prima volta. Torna a riva, scodinzola ma non di contentezza; è teso. Lascia cadere il pesce e poi corre via.

Io scendo le scale di legno. Sono a piedi nudi e mi si infila una scheggia sotto il tallone. Penso – dove lo trovo un ago, adesso? Continuo a scendere, e ad ogni passo la scheggia si infila più in profondità. Mi viene in mente che da bambina mi dicevano che le schegge non rimosse potevano risalire la carne, infilarsi in una vena e da lì raggiungere il cuore. Che brutto modo di morire, penso. Che brutto modo.

Raggiungo la spiaggia. La giacca mi sbatte contro i fianchi e il vestito sotto continua a turbinare. Mi chino sul pesce. Sembra un cucciolo di squalo, anche se non saprei dire esattamente che cosa sia. Dalle ferite provocate dai denti del cane fuoriesce una brodaglia rossastra, mista a pezzi di budella. Lo guardo affascinata. Ad un tratto squilla il telefono, ma lo sento lontano. Mi tocco la tasca della giacca e mi rendo conto che non è più lì. Mi giro di scatto e mi accorgo che l’intera spiaggia alle mie spalle è disseminata di meduse. Alcune sono secche, paiono sacchetti di plastica abbandonati sulla sabbia. Altre sono ancora gonfie d’acqua, sembrano di gelatina, pare respirino ancora. Ce ne sono centinaia, forse migliaia. Risalgo faticosamente la spiaggia e cerco di localizzare il telefono ascoltando la suoneria. Finalmente lo trovo, appoggiato su una medusa bluastra con striature rosa. Lo prendo in mano e le dita cominciano immediatamente a bruciare e a coprirsi di bolle rosse e dolorose.

Mi giro e
Mi ritrovo seduta al tavolo di cucina della vecchia casa dei miei genitori, quella in cui sono cresciuta. C’è un silenzio irreale. Davanti a me sta la mia gatta – come fa ad esserci? È morta da più di cinque anni. Ho in mano una penna e scrivo un sacco di numeri su un’agenda, una di quelle che si comprano a pochi soldi dal tabacchino e paiono quaderni; invece, se le apri, sono divise in ordine alfabetico. Ricopio nomi e numeri di telefono. Alcune persone non so nemmeno chi siano ma continuo imperterrita.

Ad un certo punto, la mia gatta si gira di scatto e rovescia un bicchiere d’acqua. La carta comincia ad assorbire il liquido, mi cola tra le gambe, gocciola sul pavimento. L’inchiostro sull’agenda si espande, i numeri si accavallano gli uni sugli altri. Io continuo a scrivere; la carta è molle e si buca sotto la punta della penna, si piaga come una bruciatura sulla pelle. Sento un cane che abbaia, le mani bagnate, la destra coperta di strane bolle. Ripenso alle cabine rosse e bianche, a quella gengiva, a quella ferita sempre aperta.
Poi, come sempre, mi sveglio.