sabato 1 febbraio 2014

Schegge.



Quando ero piccola, i miei genitori mi portavano al mare tutte le estati. Lo stabilimento balneare dove andavamo non era grande, anzi, era piuttosto piccolo; le cabine si susseguivano l’una accanto all’altra formando un’ampia striscia di bianco, sormontata da una più sottile rosso cupo; pensavo sempre che somigliassero a un’enorme, sinistra gengiva. Si trovavano su un piano rialzato di legno costruito secondo il principio delle palafitte direttamente sulla sabbia; per andare in spiaggia bisognava scendere dei gradini di legno e non era raro infilarsi una scheggia nel tallone, che poi veniva tolta con un ago sterilizzato alla bell’e meglio con la fiamma di un accendino.

Stanotte mi trovo qui, appoggiata alla ringhiera arrugginita che si affaccia sulla spiaggia e da lì sul mare. Il cielo è grigio e l’acqua sembra un’infinita distesa di mercurio argentato. C’è un vento che porta via e i capelli mi danzano davanti al viso, si infilano in bocca, li scosto con la mano ma ritornano imperterriti. Anche il mio vestito si gonfia e si sgonfia come il petto di un asmatico. Penso. Guardo giù, verso la spiaggia: c’è un cane.
È un bastardo un po’ emaciato; il pelo è grigio, a tratti così rado che si intravede la pelle rosa tesa sulle ossa. Ha il muso affilato e sofferente. Si muove silenzioso sulla sabbia, ogni tanto annusa una conchiglia portata a riva da una mareggiata, la addenta, se la mette in bocca, poi la sputa. Gli dico: “Che ci fai qui?” ma mi ignora, quasi come se volesse sottolineare che io lì non c’entro proprio nulla. Ad un tratto si mette a correre verso le onde: ha visto qualcosa. Improvvisamente si spoglia di quella spossatezza che lo ha caratterizzato fino a un secondo fa e comincia a combattere con qualcosa sotto le onde. Si immerge nell’acqua, poi riaffiora, scuote la testa, si immerge di nuovo. Poi, finalmente, riaffiora. Tra i denti stringe qualcosa, forse un pesce. È grosso, per essere arrivato così a riva. Il muso bagnato del cane si tinge di rosso e brandelli di carne biancastra gli si incastrano tra i peli. Mi guarda direttamente negli occhi per la prima volta. Torna a riva, scodinzola ma non di contentezza; è teso. Lascia cadere il pesce e poi corre via.

Io scendo le scale di legno. Sono a piedi nudi e mi si infila una scheggia sotto il tallone. Penso – dove lo trovo un ago, adesso? Continuo a scendere, e ad ogni passo la scheggia si infila più in profondità. Mi viene in mente che da bambina mi dicevano che le schegge non rimosse potevano risalire la carne, infilarsi in una vena e da lì raggiungere il cuore. Che brutto modo di morire, penso. Che brutto modo.

Raggiungo la spiaggia. La giacca mi sbatte contro i fianchi e il vestito sotto continua a turbinare. Mi chino sul pesce. Sembra un cucciolo di squalo, anche se non saprei dire esattamente che cosa sia. Dalle ferite provocate dai denti del cane fuoriesce una brodaglia rossastra, mista a pezzi di budella. Lo guardo affascinata. Ad un tratto squilla il telefono, ma lo sento lontano. Mi tocco la tasca della giacca e mi rendo conto che non è più lì. Mi giro di scatto e mi accorgo che l’intera spiaggia alle mie spalle è disseminata di meduse. Alcune sono secche, paiono sacchetti di plastica abbandonati sulla sabbia. Altre sono ancora gonfie d’acqua, sembrano di gelatina, pare respirino ancora. Ce ne sono centinaia, forse migliaia. Risalgo faticosamente la spiaggia e cerco di localizzare il telefono ascoltando la suoneria. Finalmente lo trovo, appoggiato su una medusa bluastra con striature rosa. Lo prendo in mano e le dita cominciano immediatamente a bruciare e a coprirsi di bolle rosse e dolorose.

Mi giro e
Mi ritrovo seduta al tavolo di cucina della vecchia casa dei miei genitori, quella in cui sono cresciuta. C’è un silenzio irreale. Davanti a me sta la mia gatta – come fa ad esserci? È morta da più di cinque anni. Ho in mano una penna e scrivo un sacco di numeri su un’agenda, una di quelle che si comprano a pochi soldi dal tabacchino e paiono quaderni; invece, se le apri, sono divise in ordine alfabetico. Ricopio nomi e numeri di telefono. Alcune persone non so nemmeno chi siano ma continuo imperterrita.

Ad un certo punto, la mia gatta si gira di scatto e rovescia un bicchiere d’acqua. La carta comincia ad assorbire il liquido, mi cola tra le gambe, gocciola sul pavimento. L’inchiostro sull’agenda si espande, i numeri si accavallano gli uni sugli altri. Io continuo a scrivere; la carta è molle e si buca sotto la punta della penna, si piaga come una bruciatura sulla pelle. Sento un cane che abbaia, le mani bagnate, la destra coperta di strane bolle. Ripenso alle cabine rosse e bianche, a quella gengiva, a quella ferita sempre aperta.
Poi, come sempre, mi sveglio.