mercoledì 18 giugno 2014

La cosa più disgustosa che abbia mai visto.

Nella sala d'aspetto del dottore c'è una pianta di plastica dalle foglie larghe, uguale in tutto e per tutto alla fantasia del vestito di un'anziana seduta di fianco a me. Guardo le sue mani grinzose artigliare una borsa di plastica piena di fogli e scatolette di medicinali vuoti, su cui ha annotato le dosi con grafia tremula e incerta. Guardo le mie mani, la pelle chiara tesa e tonica, le unghie rosa come piccole mandorle, e penso che anche loro un giorno diventeranno di cartapesta.

Non mi sento tanto bene. Mi sono svegliata con una sorta di nausea che mi ha accompagnata per tutta la mattina. Mi sono guardata allo specchio e ho visto il riflesso di una persona stanca e abbattuta, un po' come gli alberi che si affacciano dai cavalcavia delle autostrade. Mentre mi vestivo, ho avuto l'impressione strana e sgradevole che il sangue nelle mie vene si fosse fatto improvvisamente più denso e faticasse a scorrere. Potevo sentire il battito del cuore rimbombare nelle mie orecchie, e all'improvviso mi è sembrato tutto così estraneo e fittizio che ho dovuto smettere di pensare per non avere le vertigini.

Mentre aspettavo l'autobus un bambino si è messo a urlare che non voleva andare a casa. La madre ha cercato di farlo smettere prima con le buone, poi con un ceffone. Lui ha continuato a lamentarsi finché l'autobus non è arrivato e la madre, sconfitta, gli ha rivolto uno sguardo carico di odio sottile. Appena ha incrociato il mio ha abbassato gli occhi, piena di vergogna all'idea che un estraneo avesse captato quell'intimo desiderio di solitudine che, da madre, si sente in imbarazzo a provare. Una volta salita si è seduta lontana da me, accarezzando ostentatamente i capelli ricci del figlio.

La segretaria del dottore ha una voce metallica che mi ricorda quei messaggi pre-registrati dei servizi telefonici. È una donna alta e massiccia, dalle mani grandi e lo sguardo crudele. Batte sulla tastiera di un vecchio computer con insolita ferocia, scrutando di tanto in tanto la fila di persone sedute su queste scomode sedie di plastica verde.

Ad un certo punto, il mio orecchio destro comincia a fischiare in maniera fastidiosa. All'inizio è solo un'eco lontana, che si fa mano a mano più insistente. Mi porto una mano all'orecchio e mi sembra che si muova, un po' come quando i denti da latte ballano prima di ritrovarteli in una mano, piccoli e puntellati di sangue rossastro. Il fischio diventa sempre più acuto e diventa un trapano nella tempia. Mi accascio sulla sedia e gemo. La signora accanto a me dal vestito uguale alla pianta mi appoggia una mano incartapecorita sulla gamba.

“Tutto bene, cara?”

Le parole mi perforano il timpano come chiodi. Scuoto la testa e mi accorgo che mi sudano le mani. Nessuno a parte la signora sembra prestare attenzione a me, e presto anche lei ritorna a fissare il vuoto come se niente fosse.

Stringo l'orecchio tra due dita e mi accorgo che la pelle si è raggrinzita a tal punto da sembrare di carta. Tiro leggermente e l'orecchio si stacca come pelle morta. Mi ritrovo con l'orecchio in mano, grigio e privo di vita. Nessuno si accorge di me, a parte la segretaria che mi guarda con aria schifata.

“Non buttarlo nel cestino, è la cosa più disgustosa che abbia mai visto,” mi dice, indicando un piccolo cilindro di metallo alla sua destra. Rimango lì, mentre il fischio finalmente si placa, con l'orecchio in grembo e uno spiacevole sapore di ruggine in bocca.

Finché il dottore non mi chiama, e la sua voce piano piano si sovrappone con quella insistente della sveglia